Alfonso Diego Casella
Isabella e l’ombra, un racconto inedito di Antonio Tabucchi.
Antonio Tabucchi, come la protagonista di questo racconto, era ancora un bambino quando suo zio lo portava in treno da Vecchiano a Firenze per ammirare i grandi maestri del Rinascimento. Ce lo racconta in un articolo-missiva dal titolo “Giotto contro i barbari”, uscito su «Il Corriere della Sera» e contenuto in Feltrinelli per Firenze, un piccolo testo pubblicato in ricordo della strage di via dei Georgofili. L’iniziazione di Tabucchi all’arte non poteva però certo limitarsi ai nomi e agli stili di cui è ricca la nostra pittura. Lo zio aveva infatti ben altro da insegnargli, ovvero che l’arte è «un valore universale, perché appartiene a tutti i popoli, è l’unico linguaggio che li affratelli». Siamo nell’immediato dopoguerra, a far da sfondo alle parole dello zio è un’Italia sventrata dalle bombe e talmente umiliata dal buio del nazifascismo che l’humanitas emanata dall’arte sembra scatenare qualcosa nella sensibilità del giovane Tabucchi, segnandola in modo provvidenziale.
Dopo questa prima lezione di estetica, il Tabucchi adulto e scrittore continuerà a interrogare l’arte e a trarne importanti suggestioni. Una, in particolare, impartita dal celebre dipinto Las meninas di Velázquez, viene annunciata in modo enigmatico e profetico ne Il gioco del rovescio, assumendo fin da subito i toni di una poetica: «la chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio». Tabucchi intuisce infatti che tanto nell’arte come nella vita la verità va cercata al di là delle apparenze, va indagata tra le figure minori, ribaltando all’occorrenza il punto di vista imposto dalla consuetudine; o, per dirla con le sue stesse parole, scopre che «una certa cosa che era “così” era invece anche in un altro modo».
In Requiem, alla stregua di Bosch che ne Il trittico delle tentazioni di Sant’Antonio «pintou a tempestade que se está a passar na alma do santo» (dipinse la tempesta che si abbatteva sull’anima del santo), lo scrittore conduce la narrazione lungo il sottile confine tra il sogno e la veglia, dialoga con i fantasmi, scava nei meandri più cupi dello spirito umano a caccia dei rancori e dei rimorsi, si misura con la nostalgia dell’irreversibile. Sembra quasi che Tabucchi afferri la coda della tinca dipinta dal fiammingo per superare una membrana di luce e raggiungere il lato oscuro della vita, le sue zone d’ombra. In un suggestivo testo dal titolo “Messaggio dalla penombra” – scritto per il catalogo del pittore e amico Davide Benati e poi raccolto ne I volatili del Beato Angelico –, Tabucchi eleva questo spazio di confine a vera propria condizione esistenziale: «È difficile dire come è fatta la mia penombra, e che cosa significa. È come un sogno che sai di sognare, e in questo consiste la sua verità: nell’essere reale al di fuori del reale». Tuttavia, questa sorta di linea d’ombra non costituisce un rifugio solitario, un luogo di meditazione solipsistica, bensì un punto di osservazione dal quale lo scrittore tenta di far luce nell’animo umano, magari munito di un cerino.
Ciò si verifica anche in un altro campo d’indagine caro alla letteratura tabucchiana, già in Piazza d’Italia, ed è quello della storia o, forse sarebbe meglio dire, del “rovescio della storia”. Chiamando in causa una dicotomia cara a João Guimarães Rosa – uno dei grandi scrittori brasiliani che Tabucchi ci ha fatto conoscere in traduzione –, non esiste solamente la “Storia”, quella ufficiale, ovvero la narrazione sistematica dei fatti memorabili di una collettività umana. Esistono anche le “storie”, sorta di epopee minori condotte da uomini comuni ma non per questo prive di eroi. A volte, queste storie partecipano della grande Storia, ma più spesso forniscono letture in contrasto con la storiografia e talvolta perfino verità poco gradite all’ordine costituito.
Ecco, allora viene da pensare: la scrittura che ha il coraggio di accogliere tali storie non trasmette forse, come l’arte che aveva colpito Tabucchi da bambino, un messaggio di solidarietà e di fratellanza?
A questa grande congèrie di figure di fondo alle quali la scrittura offre generosa ospitalità, si aggiunge adesso un’ombra che esausta cerca un luogo dove riposare. Povera ombra, non importa chi ti ha cacciato, resta, questa è casa tua.
Riccardo Greco